15 marzo 2017

Esageration in Appennino

La Cà: 11/03/2017
Ore: 8
Temperatura: 1°
Sole: già alto nel cielo.
Nuvole: non pervenute.
Obbiettivo primario: essere alle 9 e mezza a Marano sul Panaro
Km all'obbiettivo: 55.
Mal di gambe: appena sceso dal letto.
Pronti partenza via!

Poche centinaia di metri mi bastano per capire che sarà una giornata di sofferenza per le mie gambe. La voglia di pedalare è tanta ma loro sarebbero state a letto ancora un po'. Due, tre, forse anche quattro orette. Invece niente, le porto a pedalare sull’Appennino tra Bologna e Modena.
Devo scendere e in fretta. Voglio trovarmi con gli amici del Club Malini e quelli della palestra in San Donato, il Bike Studio, alle 9:30 all’inizio della salita che porta da Marano sul Panaro a Ospitaletto e poi a San Dalmazio.

Ho 55 km davanti a me, chilometri che possono sembrare tutti di discesa, ma che tutti di discesa non sono. L’aria pizzica e non poco ma in cielo non si vede neanche una nuvola. Un azzurro così non lo si vedeva neanche a Berlino nel 2006, quando l’Italia ha vinto i Mondiali.
Scendo veloce ma attento, la strada è asciutta e mi sono vestito bene da non sentire il grado che il Garmin segnala.

Dalla Masera a Fanano qualche curva all’ombra merita particolare attenzione per la sua ingannevole lucidità, attenzione che è difficile tenere per il paesaggio che mi circonda. Dietro di me, prima con la coda dell’occhio e poi voltandomi, vedo La Nuda di bianco vestita dalle nevicate che in settimana, inaspettatamente, sono cadute su queste montagne.

Più le mie ruote scorrono verso valle più la vista si apre alle meraviglia che queste montagne hanno disegnato. La Nuda, il Cupolino e lo Spigolino a sud, mentre davanti ame, da Rocca Corneta con la rocca più bella che mai, si staglia il Cimone con la sua maestosità ingannevole. Un inganno che lo fa apparire il più grande di tutti. Che poi il più grande di tutti lo è, ma per questione di pochi metri, non come la vista può fare apparire.

Arrivo in fondovalle e mi butto in discesa, la poca salita prima della rotonda di Fanano mi rimane sempre indigesta, che sia fatta da un versante o dall’altro, ma a colazione proprio non va giù.
Mi butto comunque in discesa, guardo il Garmin, faccio due conti e capisco che poi, infondo, non è impossibile arrivare a Marano per le 9:30.
Cerco di non tirarci troppo anche se quando guardo il cardio capisco che, in realtà, sto forzando più del dovuto. Ci sarebbe da tornare anche indietro prima o poi, ma per il momento non ci penso.
Unico pensiero è raggiungere i ragazzi.

Quel pensiero non mi ha fatto fermare neanche una volta per scattare una foto, foto che però rimarranno sempre impresse nella mia mente. Sono quelle più belle, e sono quelle che non potrò mai rifare.
Arrivo a Marano alle 9:37, in precedenza avevo avvertito i ragazzi di salire che avrei comunque provato a raggiungerli. E così faccio. Comincio la salita da solo, dopo 55 chilometri solitari alla media dei 33,6 km/h, all’inseguimento di amici che non so se riprenderò.

I primi tornanti mi parlano chiaro, la gamba c’è, ma non ne ha mezza voglia, io ci sono, ma se stavo a letto era meglio, la giornata c’è ed è uno spettacolo.
Solo, pedalo e guardo se davanti a me spunta qualche riferimento. Non vedo nessuno, tranne un paesaggio che mi fa capire che poi a letto ho fatto bene a non starci.
Scatto una foto e continuo a pedalare.
Li riprenderò?      

Li riprendo. Poco prima di Ospitaletto vedo in lontananza un ciclista. Mi sembra di conoscerlo, la fisionomia è familiare, ma non riesco a capire chi sia. Continuo a salire del mio passo e subito dopo il paese lo raggiungo.
È il grande Denis, mai domo che pedala sulla sua Bianchi. È l’ultimo della fila, poco più avanti tutti gli altri.

Ci raggruppiamo a San Dalmazio, poi veloci in discesa da Riccò fin giù sull’Estense, che attraversiamo immediatamente, per ricominciare subito a salire verso Serramazzoni. Salita tanto bella, quanto dura, quella di Pazzano e le mie gambe, che sembrano avere il limitatore inserito, soffrono non poco, mentre i ragazzi, guidati dal maestro Loris, sono indemoniati.
A Serramazzoni ci fermiamo giusto il tempo di aspettare l’ultimo e poi di nuovo discesa verso San Dalmazio e da qui, lungo il Malandrone, verso Coscogno.

Si scende e si sale, manca ancora tanto per tornare a casa, manca soprattutto ancora tanta salita, e ahimè, invece, non mancheranno le sorprese.

Una di queste sorprese, in particolare, mi coglie veramente impreparato. Dopo aver lasciato tirare il collo a tutti da parte di Ale e Lorenz lungo il fondovalle, Loris li ferma al primo tornante della salita che porta a Samone. “Andiamo di qua”, indicando la stradina asfaltata che taglia il tornante e comincia a salire lungo i  campi. Non l’avevo mai fatta e Loris subito ne approfitta: “Proprio a te Paso devo insegnare strade nuove, di solito sei tu che insegni a noi. Ma tranquillo sale a gradoni, c’è solo un paio di chilometri che tirano cattivi.”

Cattivi è sempre un aggettivo molto soggettivo ma partiamo e come dall’inizio del giro mi metto del mio passo, ne forte ne lento e lascio andare gli indemoniati. La strada prosegue veramente a gradoni, sale e scende in continuazione e appena ho un attimo di riposo ne approfitto e smetto di pedalare. Andrea in quei momenti mi riprende, facendomi notare la bellezza di questa salita. Immersa nel verde assoluto, il panorama che si pone davanti a noi è fantastico. Il Panaro a valle e il Cimone che tocca il cielo dipingono un quadro che non potevo non immortalare.

E mentre scatto questa foto in un tratto dalla pendenza a doppia cifra mi chiedo: “Sarà questo il pezzo durò?”  

Neanche il tempo di farsi la domanda che arriva la risposta.

Il muro finisce, lasciando spazio a qualche metro di discesa, poco riposo che precede quel paio di chilometri di cui parlava il maestro Loris. Una striscia d’asfalto che si inerpica nel bosco come un serpente attorcigliato e che prosegue, poi dritta, tra campi verdi che fanno un fantastico contrasto con il blu acceso del cielo.
All’inizio del bosco due anziani riposano prima di riprendere la potatura di alcuni Castagni. Li affianco e mentre pedalo con molta fatica gli chiedo:
“Spiana prima o poi?”,
“No direi di no ragazzo.”
E a metà del drittone in mezzo ai campi comincio a pensare che i due anziani, forse, non scherzavano.
La pendenza è molto vicina al 20%, c’è silenzio nell’aria fresca che spira dall’Appennino, ma i nomi fitti che si sta prendendo il maestro si percepiscono nitidamente.

Dopo una casa la strada alleggerisce la morsa sulle gambe e riesco ad alzare lo sguardo da terra, mi volto verso il basso e vedo gli altri ragazzi salire lentamente e faticosamente in fila indiana. Poche centinaia di metri ci separano, metri che sono minuti.
Non bisognerebbe mai mettere il piede a terra, ma dopo 100 chilometri e solo un paio di foto scattate, questa non posso mancarla.

Mi fermo e scatto e riprendo la pedalata.

Una curva e finalmente la strada spiana. Loris ci aspetta, con le orecchie che fischiano, all’incrocio per Zocca. Metà gruppo torna verso la bassa, l’altra metà segue Loris.
“E ora Montalto!”
Le orecchie continueranno a fischiargli.       

Scaliamo anche Montalto, gli indemoniati si calmano un poco e riesco a tenere le loro ruote. Forse la sosta per riempire le borracce alla fontana del Rifugio Di Vino, che la signora ci ha gentilmente permesso di usare, mi ha rigenerato. O forse gli indemoniati sono stati per una volta gentili. Sicuramente mentre riempivo la borraccia e guardavo il bellissimo casolare in sasso che fa da ristorante ed Albergo, qualche tentennamento se proseguire o no l’ho avuto. Dopo 120 chilometri e più di 2000 metri di dislivello se chiamavo mia moglie e gli dicevo che gli offrivo il pranzo forse non facevo male e sicuramente lei avrebbe gradito.

Ma naturalmente proseguo con i ragazzi, al bivio aspetto Ramon che invece continua ad accusare le alte andature e in cima sulla statale del Passo Brasa i ragazzi si offrono gentilmente di accompagnarmi fino in cima al Passo.
Ringrazio ma, cortesemente, gli dico che possono anche non disturbarsi. Ma loro sono troppo amici e si disturbano.

Verso Bocca dei Ravari tornano ad essere indemoniati, mi stacco e rallento per salutare Ramon che gira verso Cereglio.
Mi rimetto a testa bassa e con un po' di orgoglio li riprendo proprio quando voltano per fermarsi al bar. Una Coca e una Piada riscaldata saranno la mia salvezza.
Di nuovo in sella i ragazzi arrivano veramente con me fino al Passo, li saluto e li ringrazio e finalmente rimango solo.

Io e altre tre salite per arrivare a La Cà. 
La prima quasi non è una salita, arrivare a Iola è quasi falsopiano tranne un paio di curve più pendenti. Poi arriva la discesa vera e propria del Passo Brasa verso Gaggio.

E arriva lui, nascosto tutto il giorno dal Monte Belvedere, finalmente appare davanti a me, maestoso come solo il CornoAlleScale sa essere.
Il Cimone è ingannevole, sembra molto più grande e alto di tutto quello che lo circonda ma in realtà non è così. Sì è il più alto, ma alla fine di pochi metri, appare così grande rispetto a ciò che lo circonda perché è il monte più a nord dell’Appennino. Il Corno è più a sud, e questo lo rende più lontano, più piccolo, ma in realtà, quando ti si apre alla vista, è il più maestoso che c’è.

E allora è inevitabile per me fermare la bici nonostante mi piaccia un sacco questa discesa, e scattare un paio di foto. È sempre bello ma quando è tutto bianco di fresca neve riesce a sprigionare una magia che nessun altra montagna sa dare.

Il giro è ormai in dirittura d’arrivo, attraverso Gaggio e arrivo a Querciola senza eccessivi patemi, agile e con il cuore che riesce a stare basso. O forse è costretto a stare basso dalla stanchezza che mi ha assalito già da un po'. Ma il giro non è finito. Raggiungere i 160 km non è impossibile e allora l’ideale è scendere fino a Farnè e salire a LaCà. Altri due km abbondanti vicini al 10%. Erano proprio la ciliegina sulla torta.

160 km, quasi 3000 metri di dislivello.
C’è chi va alle Canarie e chi ferma in Appennino.

Che fermo non ci rimane tanto!   

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